Ovvero  l’indicibile come evento di corpo di Francesca Carmignani

Si comincia. Un rumore assordante di macchina, per Castellucci “la pura funzione”, il puro fare. È al limite del sopportabile, tendente a provocare un evento di corpo in chi assiste, “sensazioni che toccano i centri nervosi dello spettatore”. Non voce, ma rumore. Un rumore campionato e distorto, suono che non arriva neppure alla lalingua, poiché in assenza di significante. Poi alle apparizioni dei cadaveri dell’uomo con il velo e dell’animale quadrupede, segue il corpo di una donna e di sottofondo, stavolta, una voce, non parole ma gemiti femminili. Indistinguibile se siano di piacere o sofferenza, dunque quintessenza di godimento. Love song è l’unico significante presente, inciso sui tendaggi e destinato a sparire nel fumo, denunciando l’inganno della parola d’amore.

L’indicibile della morte, della donna, del sesso. Senza significanti, il non simbolizzato torna nel reale. Un’allucinazione messa in scena per un’ora. Il corpo in mezzo alle immagini depurate, senza il sostegno significante, una testa di donna che è quasi mozzata da due immaginari sostegni, una catena prima, poi una teca, dove si aggirano cecamente alcune cavie. È evocato il lacaniano ratto nel labirinto dove essere e corpo coincidono. “L’animale è” dice Castellucci. Animale morto: dimostrazione che solo un’ “immagine apodittica”, cioè per lui certa, si può dare di ciò che è fuori dal programma fantasmatico e indicibile come la morte.

Non a caso al posto del velo nero c’è lo specchio nero, lutto di una fase dello specchio irrealizzabile, a sancire l’impossibilità di rappresentazione, pezzo di vetro scuro che per il regista dichiara ciò che lui stesso denomina “il collasso del significato”, autentico protagonista della piece, insieme al corpo, reale più che immaginario. Un rossetto sul volto: svela la pateticità del tentativo di recuperare un cosmetico sembiante o di bordare la zona erogena, l’orifizio da cui esce la voce? Il regista afferma di voler indagare il rapporto “tra la rappresentazione e la negazione dell’apparire” e nel racconto gotico a cui s’ispira ravvisa “lo schianto dodecafonico di un buco nero, in cui la materia […] nega sé stessa” È la conclusione aporetica per struttura: una fila di faretti che si schiantano uno dopo l’altro, mentre resiste un sibilo irritante e la macchina-locomotiva che “non pensa, ma fa”, irrompe e se ne va, veicolo stesso del rumore, che così chiude il cerchio dell’ombelico indicibile di questo sogno/incubo allucinatorio, quasi stupro dei sensi dello spettatore.

Castellucci ci trasporta insieme con lui dietro il velo… come si narra nel finale della novella di Hawthorne, in cui i morenti “andavano” là dietro, accompagnati da quel pastore che si era coperto il volto senza un perché, angosciando in tal modo i suoi fedeli. Ma, forse, come mostra lo scrittore, ognuno è solo dietro il velo, un velo che, ossimorico, è Aletheia sul vuoto di significante.  Ognuno è solo di fronte al vuoto dell’Altro barrato ne Il concetto di volto del figlio di Dio dove prevalgono, paleatici, l’oggetto sguardo e quello fecale. E soli, ancor più parossisticamente, lo si è ne Il velo nero del pastore con il puro oggetto voce che distillato all’estremo si fa, nel reale, rumore inappellabile di fronte all’Altro che non esiste, più nessuno a cui chiedere “perché mi hai abbandonato?”. E ciò che resta se siamo ridotti al nostro corpo, come ci ricorda Lacan nella Terza è l’angoscia.

Il velo nero del Pastore: sorta di evento di corpo per lo spettatore e sinthomo per Castellucci?

Comments are closed.