ANTONIO DI CIACCIA, « Mancamento radiale »
Ho intitolato così questa rubrica : è un omaggio ad Andrea Zanzotto, il grande poeta italiano scomparso pochi giorni fa. Il « mancamento radiale », tratto dalla poesia La perfezione della neve (1968), è la definizione data da Stefano Agosti all’esperienza del Poeta di Pieve di Soligo, « che vede il Soggetto collocato nel punto centrale di una sfasatura che coinvolge (e sconvolge) l’assetto del mondo ». Ma « mancamento » è il termine con cui Zanzotto stesso definisce l’opera che Lacan ha prodotto, poiché egli ha insediato « un mancamento nel posto dell’ego, introducendo consistenze da dantesco Cielo della Luna nel punto focale dei paradisi dell’io (Io ?) », come scrive nel breve saggio del 1979 « Nei paraggi di Lacan ».
L’io ? Che cos’è l’io ? Dice in una poesia di Vocativo (1957) :
– Io – in tremiti continui, – io – disperso
e presente : mai giunge
l’ora tua,
mai suona il cielo del tuo vero nascere.
Vocativo (1957): già fin da subito Stefano Agosti aveva constatato « sintomatiche quanto straordinarie coincidenze e magari anticipazioni » con il detto lacaniano. Ma che cosa spinge il Poeta « a sfogliare con ansia », un numero de La Psychanalyse scoperto su un tavolo ? Era il momento in cui, com’egli dice, « dovevo » frequentare degli psichiatri, i quali non erano proprio « ortodossi » se gli avevano sussurrato il nome ancora sconosciuto di Lacan. Il mancamento dell’io, il mancamento del mondo e di tutto il tessuto che chiamiamo realtà lo aveva indotto a distogliersi dal tentativo di reperire dei significati autentici da rinvenire all’interno dei segni. Trova, invece, il suo punto di riferimento, nuovo, inatteso, sconvolgente, nel significante.
In Beltà (1968), quando ormai la sua sfiducia nei significati è diventata totale, si rivela per lui fecondo solo l’appliglio al significante. Ormai è sul significante che egli fonderà la sua esperienza di soggetto, è tramite il significante che gli è possibile far affiorare qualche cosa che, profondamente, lo lavora e lo tritura. Così Beltà (1968) e le opere che seguono passano dal significante sganciato dal significato per ricomporsi in balbettio, in sillabazione, nell’uso dell’italiano parlato per finire al dialetto, al neologismo, alla lingua privata, alla lingua inventata, alla lingua infante. « Ascoltarlo era ascoltare, allo stesso tempo, il più colto, raffinato, lavorato, inventato dei linguaggi, un balbettio quasi infantile, il suono delle parole nel loro germinare nel nostro stesso corpo, prima di ogni significato », scrive Massimo Cacciari su la Repubblica (19 ottobre 2011). E Franco Marcoaldi, sempre sul medesimo quotidiano, ricorda « quanto i balbettii, le onomatopee, i grumi sillabici, i silenzi senza sobcco di una ‘psiche ustionata’ finiscano per dar luogo a un proliferare di voci, a una deflagrazione della materia linguistica e dunque a uno ‘zampillio segnico’ irrefrenabile ». Tutto ciò si configura come una lingua incomparabile « suscettibile di registrare, da un punto infinitamente regredito della parola, il mondo e il vissuto, il falso e l’autentico, il giocoso e il tragico, come non si era mai verificato – per una tale ampiezza di registri e di temi – nella storia della lingua e della letteratura italiana », per dirla ancora con Agosti.
Beltà segue di poco la pubblicazione degli Ecrits di Lacan, di cui Zanzotto a Milano aveva assistito a una conferenza tenuta in quel tempo. E Lacan ritorna citato direttamente, qualche anno dopo, nel bel mezzo di La Pasqua a Pieve di Soligo (1973), dove in una nenia ironica, puntellata come le Lamentazioni del profeta Geremia, il Poeta interrompe la lingua italiana per passare al francese parafrasando Francis Jammes e terminare poi con un desiderio detto alla tedesca :
« […] oui, je veux savoir ce qu’en pense l’école freudienne de Paris,
peut-être par là arriverai-je à étouffer mes soucis ;
je déborderais comme ce halo, comme cette herbe, du grabat
où mon Begehren m’a cloué et d’Œdipe le stérile combat ».
Tuttavia, scrive Zanzotto, « il debito e il confronto con Lacan era destinato a crescere, ad allargarsi », poiché nel corteo « trionfale » della psicoanalisi, laddove Freud si installava o era installato « quale Imperator vincitore, Lacan sembrava volersi inserire sempre più con il ruolo del rosso folletto che contraffaceva le mosse del Cesare, del Padrone, rivelandone l’intima figura […] Colui che agli inizi poteva anche aver assunto una fredda faccia da doctor vampirico, cangiava e roteava come un jolly, buttando sù con il suo verbeggiare un’infinità di trucioli, ancora e sempre più importanti di tutto il resto, e tanto più pungenti di ‘in-verità-vi-dico’ quanto più deteriorati da rumori di fondo e da equivoci ».
E’ il fluttuare de lalingua che affascina Zanzotto, che ritrova in Lacan quella che egli chiama « matrità », la lingua che è la madre terra, l’idioma di fondo, quella di cui lui e Lacan si servono a proprio uso, spezzettando e contraffacendo le lingue ormai morte. « Queste microlettere – scrive ancora –, queste inezie, queste tessere di un saccheggiato mosaico o puzzle, sono come talismani capaci di orientare in certe proibite Holzwege della poesia, quando già essi non la costituiscano ».
Lalingua : che ormai è là solo per dire il livello zero in cui si dice il residuo, il resto, il detrito umano o – per dirla con una sua poesia molto più tarda di Conglomerati (2009) dal titolo « la muffa » –, quell’insignificate muffetta che ha attecchito sulla terra e in cui si riduce l’umanità stessa. E, in una nota, si domanda sornione : « E il mondo dei concetti come fa a convivere con questa muffa, anzi ad essere secreto dalla muffa stessa ? ».
E che cos’è questo secreto ? se non la poesia stessa, quella che il Poeta sente e fiuta in Lacan. Forse è questo che gli permette di scrivere, alla fine del testo su Lacan : « Credo che convenga comunque sperare nella sua non speranza ».
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