Dizionario analogico della Lingua Italiana
I surfisti del linguaggio di Laura Rizzo
E’ uscito in Italia, per i tipi di Zanichelli, il Dizionario analogico della Lingua Italiana di Donata Feroldi e Elena Del Pra. Valerio Magrelli ce lo presenta con un suggestivo articolo su la Repubblica del 28 ottobre, dal titolo I surfisti del linguaggio. Surfisti: il termine evoca l’affermazione di Ricardo Piglia[i] che nel suo Formas Breves scrive che la psicoanalisi e la letteratura hanno a che vedere con l’arte del nuoto, in particolare la psicoanalisi serve a tenere a galla, nel linguaggio, gente che si ostina nello sprofondare.
Si direbbe che il fenomeno è dilagato. E, in effetti, le Autrici del Dizionario, come del resto l’Autore dell’articolo, sono scrittori nonché traduttori e, il secondo, noto poeta. Il titolo di Magrelli prosegue: “Viaggio nel dizionario delle relazioni (lessicali)”. A questo punto l’invito è irrinunciabile: come non cedere a viaggiare nelle arterie di un dizionario? Chi non ha provato il piacevole (o meno) smarrimento di lasciarsi portare dagli infiniti rimandi di un dizionario provando la vertigine del senso sul surf del significante? Ma la particolarità che la nota solleva è che ora è diverso, si arriva al dizionario senza surf. Manca la parola che ci manca. Manca il significante. C’è in gioco qualcosa che ci riguarda. Infatti il punto di partenza, propone Magrelli, è elementare: un dizionario si può consultare in due modi, conoscendo il termine di cui andiamo a caccia oppure non conoscendolo e avendo solo una vaga idea della sua esistenza. La differenza è la stessa che passa fra una ricerca verticale e una orizzontale. Esaminiamo quest’ultima, propone Magrelli: quante volte, mentre stiamo esponendo un concetto, la parola che serve a esprimere il nostro pensiero ci sfugge, malgrado sappiamo che esista? E’ proprio qui che interviene l’analogico: non per cercare qualcosa che già possediamo ma per trovare quello che ignoriamo. Ci riporta così alla presentazione stessa del volume, dove la differenza fra le due famiglie di vocabolari viene chiarita, firmata dalla prima Autrice: per ricorrere all’analogico, spiega, basta essere in possesso di un termine collegato a quello che ci interessa o anche soltanto sapere a quale ambito disciplinare esso appartenga. Piuttosto che all’ignoranza del significato di un elemento noto, questo strano strumento risponde a una lacuna espressiva, quello delle “parole per dirlo”, precisa Magrelli evocando il titolo di un romanzo autobiografico di Marie Cardinal (che narra – aggiungo – l’incontro con la scrittura attraverso l’impatto con la psicoanalisi). In effetti, l’articolo citato ben precisa che l’ aspetto più curioso è in che modo funziona questa “scatola magica”. Ecco che si spiega l’analogia, il rimando viene facile, la scatola magica è l’inconscio, quello scoperto da Freud e che Lacan rivela strutturato come un linguaggio, con le sue leggi al comando delle leggi della parola, e qui inizia la sovversione. Nessun riferimento nella parola che non sia il linguaggio stesso come ordine significante: orientamento princeps che ci spinge a tenere viva la questione e, tenendola viva, a leggerne le conseguenze, perché non è senza conseguenze che la psicoanalisi ha attraversato il sapere facendosi attraversare a sua volta, tenendo vivo il sintomo che essa è nella cultura, ossia, nel linguaggio. Di fatto, la comparsa di questa nuova famiglia di vocabolari, successori dei tradizionali vocabolari dei sinonimi e contrari, è consequenziale alla presenza del sapere della psicoanalisi nella lingua. Ma la domanda a cui risponde si colloca nella praxis, nel vivo della lingua – causa l’impoverimento della memoria. Possiamo già notare che ciò riguarda una svolta che ha occupato Lacan nel suo ultimo insegnamento e dove, come indica J.-A. Miller, il riferimento non è più Freud ma Joyce, a sua volta toccato dalla psicoanalisi, anche se disabbonato all’inconscio. Potremmo dire, con Miller, che si tratta di due inconsci diversi: l’idea di memoria riporta al primo, quello freudiano, l’idea di come parlare senza averne una di memoria è proprio la questione posta da Lacan al secondo, dalla quale lui stillerà l’inconscio reale.
Tornando alla domanda a cui il dizionario risponde, diremo che il venire meno del simbolico – come fenomeno generalizzato – è il dato che dice bene il “non ordine” simbolico, oggi all’ordine del giorno. E non è un caso che le Autrici depositino nelle “relazioni” (legami) l’invisibile materialità della lingua come rete. La copertina scelta propone un garbuglio di fili e cordicelle: ecco la concezione del linguaggio. Facile qui evocare l’immagine che ha rappresentato l’incontro Pipol 4 a Barcellona, dedicato, per l’appunto, al disinserimento dal linguaggio. Anche nel Dizionario Analogico è la trama aperta, o la non-trama, l’imput dell’illustrazione. A conferma di questa concezione del linguaggio, Magrelli ci riporta una definizione di una delle Autrici nella sua tesi di laurea in filosofia (Il significato dell’orrore), definizione che dimostra la sua continuità con l’analogico: “la ricerca della studiosa è impostata come un ipertesto”, spiega, e la cita: “un insieme di nodi connessi da legami, dove le informazioni non sono legate linearmente, come una corda a nodi, ma estendono i loro legami a stella, con una modalità reticolare”. Sorprende scoprire nell’analogico come la parola viaggi da sola a prescindere dal senso se non quello che trascina la struttura lessicale, di cui la cellula minima è il fonema, caro alla scuola di Praga, ma già presente in Saussure. Ecco che le Autrici propongono la ricerca orizzontale per aprire alla corrente che anima le onde della malandata metafora. Quella del senso appunto, nelle parole che associate lessicalmente orienteranno il viaggiatore smarrito munendolo del surf (ci è sfuggito rimarcare che l’ Analogico è portatile). Certo che, per cavalcare la cresta dell’onda sul proprio, occorrerà sempre lo spazio di un lapsus[ii].
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