Il Teatro Valle occupato
Metamorfosi del Teatro Valle occupato di Céline Menghi
All’insegna di: “Il Teatro è di tutti, è della città, se è vuoto, è morto”, il 14 giugno 2011, poco meno di tre secoli dopo la sua nascita, le Lavoratrici e i Lavoratori dello Spettacolo, cinema/teatro/danza, artisti/tecnici/operatori, stabili, precari e intermittenti, che portano avanti la lotta contro gli attacchi al mondo dell’arte e del sapere, contro i tagli alla cultura in nome dei diritti dei lavoratori, occupano il Teatro Valle di Roma.
Siamo nella scia di quei movimenti di traverso, che dalla Spagna all’Inghilterra, dalla Francia all’Italia, dalle coste dell’Africa agli Stati Uniti vanno scompigliando le carte sulla tavola dei poteri e dei potenti, ma anche dei burocrati. Le proteste, purtroppo non sempre e ovunque sono colorate e allegre, in alcuni casi sono tinte di sangue. L’aria che tira, però, è sempre quella dello spiazzamento, del rovesciamento. Nel nostro Bel Paese, la precarietà negli ultimi anni ha fatto da leitmotiv ai girotondi, agli indignados, al popolo rosa e al popolo viola. Quest’ultimo, peraltro, si è premurato di verificare che il nostro Berlus-gone (Cfr. ADC, LQ, 87) se ne andasse diritto filato a rassegnare le dimissioni. Nel contesto ampio di proteste pacifiche, e per ora ancora colorate e allegre, salvo qualche fuoriuscita balzana e inopportuna, si situa la protesta degli occupanti del Valle, trasformato, potremmo dire, nel luogo di un’esperienza pilota.
I suoi occupanti fanno da cartina di tornasole dello stato d’emergenza, e ormai di abisso, in cui versa il sistema culturale italiano che non trova interlocutori presso i referenti politici, né a destra né a sinistra. E’ dunque dal basso che artisti e maestranze, giovani e meno giovani, ripensano nuovi modelli di politiche culturali attraverso la sperimentazione di una prassi di studio e di autogoverno di questo Teatro.
Il 20 ottobre 2011 è stata presentata alla cittdinanza la stesura dello Statuto della Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Si tratta di uno Statuto Partecipato che è il risultato dell’elaborazione della pratica attiva di governo portata avanti fino a oggi come premessa a una pratica futura di governo da parte della cittadinanza stessa (disponibile sul sito www.teatrovalleoccupato.it per interventi e proposte che contribuiscano al suo affinamento).
“Nel vuoto economico una ricchezza mai vista!”.
E’ vero, al Valle, oggi emblema della precarietà che spesso presiede il mestiere del teatrante e dell’artista in genere, si respira profumo di ricchezza, si inspira entusiasmo a pieni polmoni e si è ispirati in un vortice di desiderio, non appena si entra nella platea del teatro più antico di Roma ancora in funzione. A prova che la precarietà, come l’esperienza analitica insegna, è una ricchezza di un altro statuto, che rende la nostra mente inventiva, elastica, capace di trovare soluzioni singolari a partire dal difetto, dall’equilibrio instabile del soggetto.
Già nelle strade adiacenti, quando nei primi tempi dell’occupazione ci si avvicinava a questo piccolo gioiello di architettura settecentesca, tra botteghe di cesti e impagliatori di sedie, un via vai di giovani, di curiosi, di occupanti, di commercianti, di spettatori e di artisti si avvicendava tra un’assemblea e l’altra – mai viste, tra l’altro, assemblee così ben coordinate e civili -, tra una serata di prosa e una di musica, e si percepiva il “sentimento del tempo”, per dirla con le parole di Andrea Zanzotto, il nostro grande poeta recentemente scomparso, si coglieva – e si coglie tutt’ora – che per qualcuno, ancora, vale la pena di fare a partire da poco, da “niente”,a“fondo perduto”.
I commercianti hanno offerto le prime colazioni, i pasti gratuiti a chi dormiva, gestiva, puliva, riparava, aggiustava, programmava, 24 ore su 24, non più solo Lavoratori e Lavoratrici dello spettacolo, ma anche improvvisati elettricisti, idraulici, spazzini, amministratori, contabili, maschere del Valle. Un quartiere di Roma, che rischiava la metamorfosi sotto il colpo ipnotico della privatizzazione al neon, si è rianimato. In Italia, non sono poche le aree che cadono sotto simile ipnosi. Si pensi, per esempio, in quell’esplosione di bellezza, in quel crogiuolo di storie e di cultura che è l’isola di Capri, alla via Camerelle, a come è stata narcotizzata metamorfosandosi in un defilé di vetrine da miliardo, come tanti loculi di lusso della soggettività.
La metamorfosi sembra un destino del Valle, fin dalla sua nascita nel 1726, quando fu commissionato dai marchesi Capranica del Grillo all’architetto Tommaso Morelli che costruì questo minuto gioiello in legno, provvisto di un foyer, dotato di cinque ordini di palchi e di un palcoscenico poco profondo con un piccolo boccascena.
Era il più perfezionato tra i teatri di tipo medio, con un repertorio prevalentemente di prosa. Nel corso del secolo, la sua importanza crebbe a tal punto da guadagnarsi un ruolo preminente nel sistema teatrale della città. Deve il suo nome a una curiosa congiuntura: da un lato, al suo primo impresario, Domenico Valle, che lo inaugura nel gennaio del 1727, e, dall’altro, all’area a ridosso di Piazza Navona in cui sorge la chiesa di Sant’Andrea della Valle.
Nel 1765, subì la sua prima metamorfosi per mano dell’architetto Francesco Fiori che lo ingrandì in modo da poter accogliere anche rappresentazioni musicali – esattamente quello che oggi ripropongono i suoi occupanti. La nuova forma della sala, diversa da quella tradizionale a U, rispondeva a un preciso orientamento del gusto dell’epoca in Italia e l’aggiornamento dell’immagine architettonica contribuiva alla fortuna di questo Teatro durante la metà del secolo. Il Valle era anche un esempio di conduzione imprenditoriale, di efficienza tecnica e di buona dotazione di servizi – oggi gli occupanti riportano in auge questa peculiarità facendone anche un laboratorio per maestranze – una sorta di nave scuola.
Dal Valle, sono passate celebrità della cultura non solo italiana. Alla rappresentazione nell’estate del 1787 di un’opera di Cimarosa, L’impresario in angustie, in cui si esibì il castrato Domenico Guizza detto il Caporalino, assistette Wolfgang Goethe. Gioacchino Rossini scelse il Valle per le prime rappresentazioni di ben tre opere, tra cui La Cenerentola. Luigi Pirandello vi mise in scena i Sei personaggi in cerca di autore.
A partire dal 1821, per mano di Giuseppe Valadier, il Valle, in una ulteriore metamorfosi, trova la sua straordinaria forma definitiva sia nell’impianto scenico, sia nelle decorazioni pittoriche e plastiche – la sala “gaia e lucida” immaginata dal Valadier, che lo rendono uno dei più bei teatri italiani, oltre che un esempio maggiore del complesso rapporto tra potere statale, cultura architettonica e imprenditorialità privata, suscitando apprezzamenti da parte di architetti e uomini di cultura. Il destino pionieristico o di pilota è nel DNA di questo Teatro.
Per la sua programmazione, che alterna il dramma e la commedia alla Lirica, il Valle ottiene una collocazione sempre più stabile e originale sulla scena culturale romana del XIX secolo. Dal 1865 ospitò le compagnie più famose e i grandi attori dell’epoca: da Adelaide Ristori a Tommaso Salvini, da Sarah Bernahrdt a Ermete Zacconi, fino a Ermete Novelli che, nel 1900, vi tentò uno dei primi esperimenti di Teatro Stabile.
Nel 1969, l’ETI, Ente Teatrale italiano, acquista il Valle di cui aveva già la gestione curandone anche la programmazione dal 1955. E’ all’ETI, in collaborazione con la Sovrintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici, sotto la cui tutela il teatro era passato nel 1954, che si deve l’ultima metamorfosi con un restauro effettuato nel rispetto dei canoni architettonici che lo riporta allo splendore originario.
Il 6 ottobre del 1998, s’inaugura il nuovo foyer, ampliato per le esigenze che la strategia dell’ETI imponeva nell’ambito di una trasformazione dei teatri da lei gestiti in centri di promozione culturale, non più soltanto luoghi di spettacolo, ma anche luoghi alternativi di incontro e di dibattito, aperti ad altre forme d’arte.
Con il contributo della Banca di Roma, il progetto ha portato al recupero di un ampio locale (prima destinato a uso commerciale), ora integrato nel nucleo centrale del teatro, trasformato in una sala capiente e funzionale che coniuga le esigenze dell’adeguamento impiantistico – sicurezza, servizi per disabili, impianti di trasmissione – con il rispetto degli antichi spazi.
Il Valle è vivo, in una continua fertile metamorfosi che coinvolge chi lo desidera invitandolo al dialogo per “un modello di cittadinanza attiva e un’esperienza politica di contaminazione tra le identità e le professioni come poche se ne sono viste nel nostro paese, fino ad oggi”.
Artisti, professori, avvocati – in primis Ugo Mattei, cui si deve l’impegno straordinario nel portare avanti questa avventurosa impresa, anche sul piano legale e giuridico, -, scienziati, disoccupati, studenti, adulti e giovani, italiani e stranieri, sono passati, passano, sostano, attraversano il Valle e vi ritornano, ormai da quasi sei mesi, a prendere una boccata di ossigeno fresco. Tra i molti che hanno dato e che danno il loro contributo, di giorno in giorno, di sera in sera, registrando il pieno di pubblico, ricordiamo il premio Nobel Dario Fo, le cineaste Nadia e Francesca Comencini, Nanni Moretti, Roberto Benigni, Ettore Scola, il cantante Jovanotti, la giovane Carmen Consoli, gli scrittori Erri De Luca, Andrea Camilleri, solo per citarne alcuni, insieme a tanti stranieri tra cui Peter Stein, vincitore del Premio Europa, uno dei fondatori della Schaubuhne di Berlino, cui si deve il merito di aver lottato per il drammaturgo Botho-Strauss e di aver ridisegnato lo spazio scenico cambiando nel tempo la fruizione del teatro.
Ricordiamo anche e soprattutto i nostri giovani e meno giovani attori, registi, sceneggiatori, clown, danzatori, cantanti, poeti, inventori, borsisti, studenti, ricercatori, traduttori, disabili, senza una lira, tanti e sempre nuovi, un po’ di traverso, che calcano le tavole di questo palcoscenico ogni sera – con le parole, con i corpi, con le idee. Forse proprio loro, impreziosendo la precarietà che accusano, possono contribuire a qualche progresso, quello che Lacan nel 1966 annunciava a partire dalla sua “avanzata […] verso un certo oggetto chiamato a piccolo”.
Alcune voci:
“Siamo lavoratori della conoscenza, il nostro lavoro, come la nostra vita, è quanto di più pubblico ci sia in questo paese. Eppure siamo invisibili”.
“Andiamo a dormire, insieme o da soli, con la certezza che domani ricomincia la stessa corsa del criceto. Qualcuno di noi non dorme, perché deve studiare, terminare un racconto o una poesia, rifinire una ricerca. Molti affidano alla veglia il loro desiderio di uscire da questo teatro dell’impossibile”.
“Il Cambiamento è come un bel veliero, ogni giorno cerchiamo di migliorarlo, renderlo più bello e completo, per affrontare qualsiasi tempesta e arrivare ovunque, ma se Voi non ci aiutate a farlo galleggiare per fronteggiare il futuro, questo Veliero finirà in disarmo, non importa quanto sia bello e fin dove possa arrivare”.
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