In una città di cui si lamenta il grigiore culturale; dove si dice che a sbalzi qualcosa succede e sorprende, nel campo dell’arte, e poi tutto di nuovo tace e si addormenta, o ci si addormenta; dove per chi lavora è difficile e per chi non lavora è drammatico; dove per andare a prendere il tram 8 ci si imbatte in mucchi di corpi avvolti in cartoni e coperte infeltrite, corpi dell’Est; in una città così, Roma, in questa Italia, dove le parole si sono svuotate nel mulinello televisivo, e l’immagine è al potere (Cfr. Valerio Magrelli, Il sessantotto realizzato da Mediaset. Un dialogo agli inferi. EBOOK); dove una nave da crociera di una delle più rinomate compagnie di armatori s’inabissa per il vezzo idiota del suo comandante sbruffone – fare l’”inchino” a pochi metri dalla costa nello stile da “Grande fratello”; dove lo stesso comandante abbandona la nave trasgredendo la Legge del mare e la sua etica, ogni tanto una brezza ci sfiora, come quando avviene un incontro prezioso come quello che si è svolto nel settecentesco teatro Valle poche sere fa – un incontro di voci, di suoni e di lettere, sulle ali delle parole pronunciate in lingue diverse e con la forza che presiede l’atto di parola.
I giovani occupanti del Valle, ormai da 213 giorni impegnati nel fare di questo teatro un crogiuolo della cultura e un laboratorio permanente, e in queste ore dediti alla raccolta di fondi a sostegno di una fondazione “Teatro Valle occupato”, hanno mescolato il loro desiderio con il desiderio dei borsisti della Villa Medici – storici dell’arte, restauratori, compositori, scrittori, filosofi, poeti, musicisti, scenografi e registi (Joana Barreto, Céline Bonnot-Diconne, Juan Pablo Carreño, Chloé Delaume, Caroline Deruas, Catherine Libert, Malik Mezzadri, Eric Pagliano, Rémy Yadan, Philippe Artières) per rendere omaggio a due grandi poeti recentemente scomparsi – Andrea Zanzotto di Pieve di Soligo e Edouard Glissant originario della Martinica.
Siamo sul palcoscenico, sulle sedie, alcuni in piedi, altri per terra sul boccascena. Il sipario è chiuso, non sappiamo se qualcosa succede in quell’altrove che è la platea. Noi siamo nel posto degli attori, in silenzio, siamo per così dire sull’”altra scena” – l’inconscio. Una voce rompe il silenzio, arriva dall’alto di una scala a chiocciola, come da un padiglione auricolare che convoglia il suono, un’altra giunge dal basso del boccascena in mezzo a noi, poi di nuovo dall’alto. Di lato, un flauto traverso prende il relè di un suono quasi primordiale emesso da una bocca che già è musica.
Queste voci siamo un po’ noi, i versi nascono lì, tra noi, da noi, come se qualcosa dell’intimità di ciascuno si aprisse e si liberasse nello slancio dalle strettezze del discorso che ci siamo lasciati alle spalle, fuori. Eppure, di scena, è la lettera, noi non facciamo nulla, se non ascoltare e voltare la testa, di tanto in tanto, per intercettare, catturato dall’occhio di bue, il corpo che incarna la voce, lassù in cima, quaggiù a pochi passi. La lettera piove dalle cantinelle o scivola sulla scena in tutta la sua materialità di frammenti poetici, così, come apparve a Lacan “il ruscellamento delle acque, […] quell’unica traccia ad apparire nella pianura […] desolata che è la pianura siberiana, piena di riflessi, riflessi di quel ruscellamento, che mettono in ombra ciò che non scintilla“.
Si crea una strana intimità tra noi e la lettera, quando Maddalena Crippa, attrice di Giorgio Strehler e di Peter Stein, pronuncia gli Idiomi e i Fosfeni di Zanzotto, e quando Anne Consigny, attrice di Peter Brook e di Manoel de Oliveira, parla di ”les grands chaos”, “au bord du monde”, “le tout-monde”, “tout-monde”.
Ci prepara Zanzotto, il tormentato dalla lingua che entrava e usciva dall’”idioma”, che ribadiva che la lingua è una questione di miscellanea, condivisione e incroci, ci prepara all’altro luogo – “Noi siamo portati a pensare comunque al sogno come a uno sguardo su un altrove che pur è interiore, in esso abbiamo la sensazione di essere noi, come camminanti su un filo. […] V’è nella poesia la forza che si scatena dal ricongiungimento del rebus della lingua come tale al rebus dell’inconscio-sogno” (Prospezioni e consuntivi, p. 1287-1293); ci prepara Glissant, il pensatore della “creolizzazione”, che sosteneva le identità multiple “all’incrocio tra sé e gli altri”, ci prepara a sostare nell’atmosfera dell’ I AM US, io sono noi, nel luogo di una frontiera labile – “Je peux changer en échangeant avec l’autre, sans me perdre pourtant ni me dénaturer. C’est pourquoi nous avons besoin des frontières, non plus pour nous arrêter, mais pour exercer ce libre passage du même à l’autre, pour souligner la merveille de l’ici-là” (E. G.).
Il ruscellamento, ci dice Lacan, è un bouquet – “fa bouquet con quello che altrove ho distinto come tratto primo e quello che questo cancella. […] l’ho detto a proposito del tratto unario: è con la cancellatura del tratto che si designa il soggetto. Lo si osserva dunque in due tempi. Ed è dunque necessario che vi si distingua la cancellatura” (J.L., Lituraterra).
Sono piccoli gesti, trovate apparentemente semplici a fare il teatro.
Quando si apre il sipario, e si annuncia un tempo due rispetto al tempo uno di quando il sipario era chiuso, la platea sembra vuota, noi cancellati lì, ma da quel vuoto, da quella pianura deserta, salgono, spaziate come sono i bianchi della poesia, i suoi buchi, i suoi vuoti, altre voci incarnate che veicolano la lettera – da una poltrona, da un palco, e poi di nuovo dal boccascena, dalla scala a chiocciola, dalla cantinella – Majakowsky. Michaux. Rimbaud. E poi di nuovo Zanzotto. E di nuovo Glissant. E tanti ancora, In russo, in francese, in italiano, in spagnolo, forse in ungherese. Epoche diverse, contemporaneità diverse fanno della diacronia una sincronia, mentre la discontinuità volge al senza soluzione di continuità.
Noi guardiamo la platea, dove siamo cancellati per ritrovarci soggetti, responsabili dell’effetto che le parole scavano in ciascuno di noi, e al contempo, grazie alla lettera, poetica, che raggiunge ciascuno, uno per uno, che ci scivola dentro, grazie alla lettera ci ritroviamo a “n’être plus la voix de personne/tant que des ondes et des bois”, come scriveva Paul Valéry.
L’intimità più profonda scivola nell’estimità più lontana e strana, le due coagulate nell’Uno che non è unione, ma è marchio della solitudine dell’essere parlante fronte alla sparizione dell’Altro inesistente. Intima ed estima, questa solitudine dell’Uno espone ciascuno al mistero dell’alterità più assoluta – l’Altro femminile, l’Altro diverso, l’Altro emigrato, l’Altro della lingua altra, l’Altro del godimento sconosciuto, misterioso e opaco che fa paura.
Come il palcoscenico si è aperto alla platea, tirato via il diaframma del sipario, così a ciascuno conviene aprirsi al proprio esilio, perché lì, in quell’esilio, possa trovare il marchio, la lettera che condensa il godimento impossibile, quello che, una volta per sempre, ha fatto per ciascuno il suo proprio esilio dal Tutto.
Zanzotto, Glissant – perché loro? Perché proprio loro? Perché la lingua, la lalingua, è fatta d’idiomi – “Nessuno si è qui soffermato – Anzi moltissimi./Ma ogni presenza è così sua di sé/e questo spazio così oltrato oltrato…(che)” (A.Z., L’elegia in petèl, 1968); perché solo la compresenza delle lingue salva una lingua – “J’écris en présence de toutes les langues du monde” (E.G., Congrès Eurozine ’Crosswords X Mots-croisés’ 2008).
La lettera, il poeta che annusa l’aria dei tempi, le lettere, una per una come le donne, quando piovono, come sulla Siberia di Lacan, gettano un’ombra speciale su ciò che non scintilla. Quest’ombra non è quella che cade sul soggetto, ma è il riflesso della cancellatura che lo ha fatto nascere. La lettera graffia il grigiore dei discorsi. L’amore per la lettera e per il reale che porta in sé rende meno drammatiche e meno orribili le relazioni tra gli esseri umani, le relazioni con quell’altrove, quell’”oltrato” che loro appartiene e che fanno incarnare agli altri – i diversi, gli strani, le donne. L’amore per la lettera ci salva forse un po’ nella relazione con il nostro godimento opaco, singolare, ce lo fa amare un po’.

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